Correva l’anno 1908, quando, pochi giorni prima dell’8 marzo, a New York, le operaie di una industria tessile scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero durò alcuni giorni, finché l’8 marzo, il proprietario dello stabilimento, bloccò tutte le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire. Fu poi appiccato il fuoco e le 129 operaie, prigioniere all’interno della fabbrica, morirono arse dalle fiamme.
Successivamente, questa data venne proposta come giornata di lotta internazionale, a favore delle donne, da Rosa Luxemburg, proprio in ricordo di quella tragedia. Da allora, negli anni a venire, cominciarono, partendo proprio dagli USA, dove la tragedia si era consumata, una serie di celebrazioni, poi diffusesi anche in Europa, man mano che le donne cominciarono a maturare consapevolezza dello stato di disagio in cui vivevano ed a combattere per i loro diritti.
Con la fine della II guerra mondiale, l’8 marzo 1946 fu celebrato in tutta l’Italia e vide la prima comparsa del suo anche attuale simbolo, la mimosa, che fiorisce proprio nei primi giorni di marzo.
Questa è una breve sintesi degli eventi storici, fino ai giorni nostri, in cui questa ed anche altre celebrazioni sono state snaturate da logiche commerciali che le hanno quasi private dei loro significati originari per ridurle a occasioni di profitto…
Scrivere non è certamente facile. Ma oggi scrivere in Iraq diventa una vera impresa, quando si conoscono le innumerevoli difficoltà, materiali ed etiche, causate dalla guerra – le guerre – e soprattutto dall’embargo. D’altronde, l’attività dell’editore è quasi una missione impossibile in un Paese dove manca carta, inchiostro, pezzi di ricambio per stampanti. E soprattutto manca quella bella rosa dai petali splendenti, ovunque agognata: la libertà di espressione.
Laggiù, dopo aver messo a letto i bambini, le donne scrivono nell’oscurità di eterne interruzioni di elettricità. L’ispirazione raggiunge occhi affaticati e spenti. Occhi che non possono permettersi una matita di kajal importata, perché ha un prezzo esorbitante: come cento biro, tre polli o ottanta gallette di pane. Insomma, l’intero stipendio di un mese!
Inaam Kachachi – Parole di donne irachene – Il dramma di un Paese scritto al femminile
Le donne provano la temperatura del
ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte
quando l’ostetrica dice “non urli, non è mica la prima”. Imparano a
cantare piangendo, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in
braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui
barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno
più confidenza col dolore. È un compagno di vita, è un nemico tanto
familiare da esser quasi amico. Ci si vive, è normale. Strillare
disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco
cosa serve. Trasformare il dolore in forza. È una lezione antica, una
sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. Maria Malibran, leggendario
mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili
lezioni di canto inflitte dal padre. Denise Karbon che scia ingessata,
Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta
bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi.
La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché
pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le
ragioni, di poterle governare, alla fine. Le migliaia, milioni di donne
che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che, anziché
sottrarsi quando possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da
circo straordinario, questo di cercare di addomesticare la violenza – la
violenza degli uomini – qualche volta andando a cercarla, persino.
Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché il tempo che viviamo
chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con
l’altrui brutale insofferenza. Le storie che ho raccolto sono scie
luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una
grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la
violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la
posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono
l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce
la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per
dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Sono, alla fine,
gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi
di resistenza al dolore.
GRAZIE PER OGNI MIMOSA RICEVUTA, PER LE VOLTE CHE CI AVETE FATTO RIDERE E DIVERTIRE MA SE NON C'E' TRACCIA DI NOI NEL VOSTRO CUORE E NELLA VOSTRA MENTE NON POTETE RISPETTARCI , QUINDI CI NEGATE LA VITA!!
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